ETICHETTA DODICILUNE
C’è uno strumento che, come un’Arche senza tempo, attraversa le epoche e le latitudini con la stessa forza con cui l’Essere si svela nel pensiero. La chitarra – non semplice oggetto, ma emanazione ontologica del logos musicale – si fa voce dei mondi del Sud, echi di culture che non si sono mai lasciate zittire.
Essa è il corpo sonoro del divenire, che unisce in un unico respiro le molte lingue della Terra.
Nel suo ventre di legno e corda si cela una verità pre-logica: la musica non è intrattenimento, ma esperienza originaria dell’essere, come suggerirebbe Heidegger, un modo di abitare poeticamente il mondo.
In quest’ottica, “Isabél”, opera prima di Michele Liso, si pone come evento, non semplice opera, e come tale, non si ascolta: si contempla, si attraversa.
Nel flamenco, le corde della chitarra non suonano: ardono. Sono i fuochi di Eraclito, le fiamme che consumano e rigenerano, che danzano tra il pathos e la tecnica. Liso, con grazia dionisiaca e disciplina apollinea, si muove in questo campo di forze, restituendo una sintesi che non è compromesso, ma superamento.
Come Nietzsche intuiva nella sua visione della tragedia greca, l’arte autentica nasce dall’unione degli opposti: forma e caos, compostezza e vertigine. In “Isabél”, questa unione si fa suono.
La sua musica si staglia in un territorio oltre il jazz, pur sfiorando, a tratti, i fantasmi stilizzati di Al Di Meola o le spirali iberiche di Chick Corea.
Ma sono solo tracce, simulacri platonici di una realtà musicale che in Liso ha una struttura tutta sua: necessaria, coerente, personale. La sua chitarra non è imitazione né citazione: è atto creativo originario, espressione immanente, come direbbe Spinoza, della sostanza musicale.
Michele Liso è figlio di un doppio mondo: l’alto tempio della chitarra classica e la piazza infuocata della musica popolare. Come un moderno Giano bifronte, riesce a guardare contemporaneamente verso l’ordine dell’accademia e la spontaneità del folklore, elaborando un linguaggio che non si appoggia alla nostalgia, ma traccia un’etica del suono.
Le sue stesse parole parlano di una trasformazione: dalla forma classica alla libertà espressiva, da un passato definito a una nuova geografia sonora. In questa mutazione, si coglie il movimento deleuziano del desiderio, che non è mancanza ma forza produttiva, slancio verso il nuovo. “Isabél” è l’esito di questo flusso: una musica che diventa mappa affettiva, cartografia dell’anima.
Nel cuore dell’opera, pulsa l’omaggio alla madre, figura archetipica e reale, presenza interiore e memoria viva. È in lei che si compie la fusione tra arte e vita, tra origine e finalità. In termini hegeliani, potremmo dire che “Isabél” è la sintesi dialettica fra Tesi (la disciplina classica), Antitesi (la libertà popolare) e Sintesi (l’unità musicale nuova).
Ogni brano dell’album è frammento di un tutto, scheggia di un cosmo che si ricompone nell’ascolto:
- “Entropia” evoca il caos primordiale, ma in esso si annida già l’ordine, come intuiva Anassimandro. È un brano che incarna l’essenza del divenire: la tensione continua tra l’essere e il nulla.
- “Samba de Luna” è una danza estatica sotto la luna nietzschiana, simbolo della notte in cui tutto si trasforma e ogni identità si dissolve.
- “Nina Caprichosa” è gioco e infanzia, reminiscenza platonica di un mondo ideale, che si esprime nel ritmo come idea pura.
- “Tarantella” si fa rituale antico, mito sonoro che collega il corpo al cosmo, la Puglia al mondo, in un’intersezione di radici e risonanze.
- “Viajero” è il canto dell’eterno ritorno, un percorso circolare in cui il viaggiatore, come Ulisse, si perde e si ritrova nella fiamma della passione.
- In “Hera”, la chitarra evoca la Dea Madre, archetipo junghiano e simbolo dell’origine. La buleria flamenca diventa così mitologia incarnata.
- “Jardin de Moreras” è un locus amoenus musicale, edenico e fragile. Qui la natura non è imitata ma ri-attualizzata nell’ascolto, come nelle meditazioni di Rousseau.
- In “Creta”, le trame sonore sono vento e sale: il Mediterraneo diventa luogo ontologico, spazio di pensiero e nostalgia.
- “Per un amico” è ethos musicale: il suono come dono, come comunione tra spiriti affini. Un tributo, ma anche una dichiarazione di fratellanza estetica.
- “Sonatina Romantica” è il momento elegiaco, la piccola ode che si fa canto dell’amore e della bellezza, l’istante in cui l’assoluto si fa sensibile.
“Isabél” è un’opera che pensa, che interroga, che accade. In un’epoca dominata dal rumore e dal consumo rapido, è un gesto di resistenza, un richiamo all’ascolto autentico, quello di cui parlava Simone Weil: ascoltare non per rispondere, ma per comprendere.
Con Michele Liso, la chitarra non è più soltanto strumento: diventa filosofia incarnata, manifestazione del divenire, danza dell’Essere.
Buon ascolto.
Vincenzo Genovese.
leggi altra recensione di Vincenzo Genovese
visita il sito dell’etichetta dodicilune