Patty Lomuscio meets Kenny Barron, Peter Washington, Joe Farnsworth.

Dalla Puglia alle Americhe, un viaggio transoceanico che ha segnato la vita di orde di miei conterranei che tra il finire dell’Ottocento ed i primi del Novecento affidavano i loro sogni a vascelli alimentati a carbone e speranze.

A bordo si faceva musica per rendere meno gravosi gli oltre trenta giorni che servivano per approdare dall’altra parte del mondo, ed i canti avevano come comune denominatore la nostalgia, le paure e le incertezze di un destino ignoto ma anche, e soprattutto, l’amore.

Oltre un secolo dopo, una giovane musicista andriese, ripercorre lo stesso tragitto solcato dagli avi, ma (per sua fortuna forse) con tutte le comodità offerte da un volo di linea di poche ore, quelle che la separano dall’incontro con un gigante del jazz con il quale di lì a poco, porterà a maturazione un sogno acerbo, registrando un album i cui brani hanno, anche in questo caso, come comune denominatore l’amore. 

La musicista è Patty Lomuscio, violoncellista e singer, che in America ci è già stata più volte per motivi di studio (nel 2011 per perfezionare il “suo” jazz con il pianista Jon Davis), ma anche per lavoro, come nel 2015, quando registra a New York il suo primo disco da leader, “Further To Fly”, interamente dedicato a Paul Simon e Art Garfunkel (se a qualcuno sfugge sono quelli di The Boxer, Mrs. Robinson e Bridge over Troubled Water…), accompagnata da Jon Davis al piano, Vince Ector alla batteria e Gianluca Renzi al contrabasso. 

Il gigante che l’attende sul suolo marchiato a stelle e strisce è invece nientemeno che Kenny Barron, quel pianista (si, proprio lui) che ha suonato con i pilastri del jazz, da Gillespie, a Stanley Turrentine, da Coltrane a Lee Morgan, da Freddie Hubbard a Milt Jackson, da Buster Williams, Ben Riley e Charlie Rouse con i quali fondò gli Sphere, fino ad arrivare (con buona pace di tutti i grandissimi musicisti che al momento mi sfuggono) alle collaborazioni con Charlie Haden con il quale ha inciso più di un album, ultimo ma non per ultimo, quel “Night and the City” registrato all’Iridium Jazz Club di Brodway nel 1996, che è un must nella discoteca dell’audiofilo-tipo in perenne sfida con il numero dei rimbalzi del secchiello del ghiaccio sfuggito alle mani di un incauto quanto inconsapevole cameriere, ripreso in “Twilight song”.  

Barron non è solo però. Ad aspettare Patty ci sono anche il sassofonista Vincent Herring (sodale di “tipi” come Nat Adderley, Freddie Hubbard, Horace Silver, Carla Bley ecc.. e che ha all’attivo ben 20 album come solista e oltre 250 come “sideman”), il contrabassista Peter Washington che ha accompagnato un esercito di jazzisti (tra le centinaia di incisioni a cui ha preso parte io ricordo con passione un paio di album registrati con Tom Harrell) ed il bravissimo batterista Joe Farnsworth (lo avrete sicuramente sentito suonare in “Remembering Clifford” e in “Tenor Legacy” di Benny Golson o in tanti album di Eric Alexander) che della Lomuscio è amico da tempo e che è stato il “ trait d’union” tra la singer pugliese ed il resto della banda.

L’appuntamento è in un posto nel quale ogni musicista vorrebbe metterci i piedi almeno una volta nella vita, al “Rudy Van Gelder Studio”, nel New Jersey, studio utilizzato da sempre dalle più grandi etichette discografiche e nel quale ha registrato il “gotha” dei jazzisti provenienti da ogni parte del mondo. 

I brani scelti sono nove, tutti standard del jazz tranne uno che però lo potrebbe ben presto diventare. 

Il pezzo di apertura è una ninna-nanna, “Lullaby”, composto da Kenny Baron una trentina di anni orsono ed al quale Patty Lomuscio ha aggiunto il testo con espressa dedica ad Ambra, che nelle note di copertina indica essere una sua piccola supporter.

L’attacco di Barron, immediatamente “sostenuto” dall’ argentino ride della batteria di Joe Farnsworth, apre la strada alla bella voce della singer pugliese che, aggirandosi sicura tra due ottave, immediatamente palesa le sue doti vocali ed il suo backgroung formativo.

Il bellissimo interplay tra il pianoforte e la batteria che si svolge per tutto il pezzo diventa una culla per l’ascoltatore che può rilassarsi rollato dalle melodiche onde che vengon fuori dalle labbra della cantante pugliese.

Il secondo brano, quello che da il titolo all’album, “Star Crossed Lovers”, uno standard che più standard non si può, è una bellissima ballad con testo di Billy Strayhorn e musica di Duke Ellington, pubblicata per la prima volta nel 1957 nella suite “Such Sweet Thunder” concepita dal compositore statunitense (è sminuente definirlo solo pianista…) sulla base delle principali opere di Shakespeare. 

Le “stelle incrociate” altro infatti non sono che le anime di Romeo e Giulietta, gli amanti veronesi  che pur di stare insieme, scelsero di andare contro il volere delle rispettive famiglie e quindi contro il destino, con conseguenze tragiche, causate da una serie di “ironici” errori di comunicazione, che tutti (lo spero) conosciamo.

E’ un tema difficile quindi quello affidato al quartetto, ma il tocco magico di Barron sulla tastiera e la sapiente maestria nell’insolito (nel jazz eh…) uso dell’archetto di Peter Washington (che però lascia troppo presto spazio al più consono pizzicato delle corde), insieme alla delicatezza delle spazzole di Farnsworth, offrono alla Lomuscio un campo da gioco “facile” nel quale poter esprimere al meglio tutta la tragica bellezza che il pezzo in questione richiede.

Nel titolo successivo invece la singer pugliese è costretta a tirare fuori la grinta che occorre per affrontare a tempo di swing il “This can’t be love” tratto dal musical “The Boys from Syracuse” di Richard Rodgers e Lorenz Hart. E lo fa con sorprendente scioltezza e freschezza anche quando il ritmo incalzante della batteria (che sfocerà in un bell’assolo) la (so)spinge verso un acrobatico “scat”.

Un bellissimo glissato del contrabbasso di Washington funge da intro in “Left Alone”, il quarto brano dell’album, dove la Lomuscio si confronta con una ballad di Ella Fitzgerald (la musica è di Mal Waldron) superando la prova alla grande. Per la prima volta appare il sax di Vincent Herring che ci regala un bellissimo assolo.

L’atmosfera è ormai calda ed il quartetto (è assente il sax) entra facilmente nel groove di “You’re my everything” un brano passato alla storia grazie alla falsa partenza ripresa in “Relaxin”, uno dei quattro album registrati da Miles Davis proprio nel Rudy Van Gelder Studio tra il maggio e l’ottobre del 1956.

In quell’occasione, contrariamente a  quello che fa Barron nel disco in recensione, Red Garland apre il brano con degli accordi soft arpeggiati con la sola mano destra,  ma la cosa non piace al trombettista che prima stoppa il pianista con un fischio secco  e subito dopo, con la sua tipica voce roca, ma con un occhio rivolto a Van Gelder, gli dice: “Play some block chords, Red. All right, Rudy? Block chords, Red”.

Per chi non lo sa, la tecnica a “block chords” in cui Garland era particolarmente bravo, consiste nell’armonizzare le note della melodia con le note di ogni accordo (cd. chord tones). Per farla breve Miles chiese a Garland di usare entrambe le mani….ma questa è storia!

Il sesto pezzo, intitolato “E se”, l’unico dell’album a non essere uno standard internazionale del jazz ma che ha tutte le carte in regola per poterlo diventare, è una bellissima ballad scritta e musicata da Mario Rosini, musicista e cantante di Santeramo in Colle che nel 2004 giunse secondo al festival di Sanremo con il brano “Sei la vita mia”.

Qui Patty Lomuscio fa sfoggio di grande maturità artistica ed a me, non lo nascondo, ha ricordato tanto la Patrizia Laquidara di “Per causa di amore”, dove duetta con Mario Venuti.

Il fraseggio del pianoforte di Barron è carico di pathos, con il suo solito voicing che ricorda tanto le sonorità evansiane, ed il dialogo con il contrabasso e la batteria fa emergere quella che, ad essere pignoli, è a mio avviso l’unica pecca del brano, la mancanza di una tromba che si alterni alla bella voce di Patty. 

I due pezzi successivi rialzano il tempo. “Cedar’blues” è hard bop allo stato puro come altro non potrebbe essere qualcosa che sia stata scritta da Cedar Walton.

L’assenza di confini tipica dello stile è perfettamente interpretata dalla singer pugliese che si cala negli anni cinquanta e ci dona un “call and response” con il resto della band che all’apice del climax sfocia in uno scat sincopato e allegro.

E’ invece una insolita bossa nova il ritmo scelto per il “Body and Soul” seguente, e qui il cavallo di battaglia di Lady Day è cavalcato dalla Lomuscio ad un trotto degno della migliore fantina di Piazza di Siena. Il tema è sempre quello, l’amore, e lo strumento che usa chi lo svolge è carico della sensualità necessaria per ottenere un ottimo voto.

Chiude l’album “Love walked in”, un pezzo scritto dai fratelli Gershwin nel 1930 ed a me particolarmente caro nella versione suonata da Chet Baker nel 1964.

Il fraseggio tra la Lomuscio e Barron, in perfetta linea con il testo, è come un corteggiamento, dove i due si (pro)pongono vicendevolmente a momenti alterni ma ben dosati, rispettosi dei tempi necessari all’altro per esprimersi. Emozione pura.

Penso che si sia capito che quest’album mi è piaciuto, e non poco.

Ascoltatelo 😉

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