Dream Theatre “A view from the top of the world tour” – Palapartenope – Napoli – 23.01.2023

Il teatro del sogno riapre i battenti, forzatamente chiusi nel bel mezzo del “Distance Over Time” tour (causa “pandemenza”) portando nella suggestiva Napoli (per la gioia dei “dreamers” meridionali, tra i quali il sottoscritto) il suo repertorio di “incantesimi, spari e petardi” (copyright Paolo Conte) al quale, forse, manca la freschezza primigenia delle esibizioni degli anni ’90 e primi 2000 (chi scrive ebbe la fortuna di assistere alla tappa romana dell’Awake Tour del 1995 nella splendida cornice di Villa Pamphili) ma che, comunque, continua ad offrire un live act di indiscutibile livello tanto più apprezzabile se rapportato alla mediocrità dei tempi correnti ammorbati dalla sovraesposizione mediatica di fenomeni musicali di desolante pochezza (ogni riferimento ai “Manecosi” non è casuale).

L’opening act è affidato al combo finnico degli Arjon che propongono un, tutto sommato godibile, antipasto oscillante tra il trash e lo speed metal  dalle abbastanza marcate influenze megadeathiane.

Lo scorrere sul megaschermo dell’artwork animato di “A view from the top of the world” (per inciso, graficamente pregevole) prelude all’ingresso sul palco dei magnifici cinque sull’attacco di “The Alien”, instant classic della produzione DT che, pur non brillando particolarmente per originalità, si dimostra meglio funzionante live rispetto alla lacca (lo confesso, continuo a preferire il vinile) portando il pubblico “in temperatura” per l’ovazione che accoglie “6.00” dove l’interazione tra il basso affilato di John Myung ed il drumming potente e preciso di un ispiratissimo Mike Mangini (e lo dico da “vedova” di Portnoy)  ci porta nelle sfavillanti sonorità  di Awake, (capo)lavoro che (a mio parere) resta la vetta artistica e creativa del gruppo.

Ormai lo show è decollato, il buon La Brie (la cui resa vocale comincia, inevitabilmente, a mostrare qualche segno del tempo) ci informa che passeremo “due ore di great time e chi se ne f*tte di quello che succede fuori da qui (letterale)” e si può partire sulle note di “Sleeping Giant” (uno dei momenti più convincenti dell’ultimo album) per un viaggio tra passato e presente della band a  bordo del vascello ebbro capitanato da John Petrucci che, anche questa sera, non manca di dare prova della sua clamorosa cifra chitarristica. 

L’imponenza orchestrale di “Bridges in the Sky” lascia posto alla inquieta espressività di una nervosa “Caught in a Web” (intessuta sulle trame della tastiera negromantica di Jordan Rudess) per poi tornare all’ultima produzione con il virtuoso esercizio di stile di  “Answering the Call”  che, a sua volta, precede un trittico tratto da “Six Degrees of Inner Turbulence” (“Solitary Shell”, “About to crash” e “Losing Time”); una sorta di “concerto nel concerto” in cui (con scafato professionismo) la macchina musicale DT porta  progressivamente i giri al massimo trascinandosi dietro l’entusiasta pubblico che letteralmente deflagra in un boato all’attacco di “Pull Me Under”.

La parte finale della performance partenopea propone il brano eponimo del tour per concludersi con la fluviale e maestosa “The Count of Tuscany” (mancante dalle scalette live dal 2011) classica (magari un po’ furba) “suite”  di sintesi della complessa grammatica musicale del gruppo (per quanto, suite per suite, chiudere con “A Change of Season” sarebbe stato “mesmerizzante”).

Il lungo digiuno dagli eventi dal vivo forse condiziona l’obbiettività critica esponendo al rischio di un eccesso di entusiasmo; tuttavia si può concludere che, dopo oltre trent’anni di carriera, i DT stanno percorrendo (anche per motivi anagrafici) quel filo sospeso tra il fulgore di un luminosissimo passato (temo irripetibile) ed il maturo esercizio di una consapevole professione artistica conservando, ancora, la capacità di entusiasmarci, stupirci e regalarci uno show da ricordare.

Gianfabio Cantobelli

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