La Mia Discoteca dalla “A” alla “Z” a cura di Antonio Scanferlato

Apro il mio archivio musicale analogico per questa rubrica, che avrà cadenza più o meno quindicinale. In essa racconterò brevemente storie, eventuali aneddoti ed emozioni legate ad ogni amato Long Playing ovvero ad ogni disco in vinile a 33 e 45 giri, che posseggo. 

Partirò dagli AC/DC, per finire a Frank Zappa, procedendo in ordine alfabetico ma a zig-zag fra i vari generi musicali, per evitare noiose monografie. 

La mia collezione parla tutte le lingue della musica, quindi essa vi racconterà il Blues, il Jazz, la Fusion, la Classica, il Rock in tutte le sue declinazioni, l’Etnica, quella Antica e stranezze varie attraverso la lente deformata e deformante delle mie personali percezioni e sensazioni.

Disco #1

AC/DC – If You Want Blood You’ve Got It

Li vidi per la prima volta in una TV libera – i diavoli australiani – esagitati protagonisti della clip di Highway to Hell.

L’anno era il 1979 ed io ancora un tenero “figlio di famiglia”.

Mi sconvolsero! 

Non capivo se mi piaceva quel che vedevo e sentivo. Trovavo interessante quel rock, mi colpiva, ma era molto più grezzo ed aggressivo del mio amato “On Through the Out Door”, il mio primo LP dei Led Zeppelin, dei quali però non avevo ancora ascoltato altro.

Di Bon Scott trovavo insopportabile la sua voce stridula. E poi mi spaventava quel suo atteggiamento spavaldo, da ragazzaccio di periferia. Il chitarrista solista del gruppo invece era per me irritante: non stava fermo un attimo e con quel modo di scuotere la testa muovendo la bocca sembrava morso da una tarantola.

Ma la verità è che Angus Young cominciò a saltellare freneticamente sul palco per schivare il lancio di oggetti al suo indirizzo quando, consigliato dal fratello Malcom, sì presentò a suonare vestito da scolaro. Del resto i britannici in quel momento non solo non erano pronti per quel messaggio carico di ribelle ironia, ma s’infuriavano alla sola vista di una qualsiasi divisa.

Quello era il Rock ‘n’ Roll! E io ancora non lo avevo capito.

Aveva invece capito tutto Eddy Van Halen, quel tardo mattino del 23 luglio del 1978, quando in attesa al lato del palco dell’Oakland Coliseum in California, mentre gli AC/DC suonavano pensò: «Do we have to play after these motherfuckers?».

E fu quella stessa fatidica mattina dall’atmosfera incendiaria che Angus, rispose al giovane cronista che gli chiese quale genere di spettacolo sarebbe stato il loro: «if you want blood you’ve got It!» coniando così il titolo di questo album e di una canzone del successivo. E fu una promessa mantenuta ad ogni concerto di quel tour, sino all’apoteosi di Glasgow, città natale dei due fratelli Young e luogo di provenienza del tellurico live di cui vi scrivo.

Se piace il genere musicale e in particolare la band, questo concerto è di portata epocale (sperando che a nessuno sia venuta la tentazione di dargli una “aggiustatina” in studio, come era in uso all’epoca) perché tutto è perfettamente a fuoco: il Rock ‘n’ Roll prima di tutto! Esso è rappresentato con piglio viscerale, grinta predatoria ed una tale spietata aggressività da risultare quasi folle. Ma è così che deve essere, per la miseria! 

Bon Scott era il fontman giusto per il tipo di musica suonata. I suoi testi raccontano sé stesso, la sua vita presa a morsi, gustata giorno per giorno, un po’ ai margini del mondo e un po’ da rockstar. Lui nei suoi testi è pungente, dissacrante, scandaloso ma sempre ironico e per questo adorabile, nonostante mascalzone.

Dal canto suo il giovane Angus, coprotagonista insieme al cantante, è la vera personalità del gruppo. I suoi riff, i suoi assolo ed il suono unico delle sue chitarre lo rendono, insieme al suo travestimento, un classico istantaneo nell’immaginario collettivo fra gli archetipi del rocker aggressivotrasgressivo purosangue.

La sezione ritmica AC/DC è stata per me quanto di più enigmatico esistesse al mondo. Come potevo digerire la “monotonia” del batterista Phil Rudd al confronto con la creativa potenza al cubo di John Bonham o con la precisione e ineguagliabile personalità di Ian Paice o con la genialità psicotica di Keith Moon? Solo per citarne alcuni.

Per non parlare del bassista, che trovavo insopportabilmente monocorde. Del più giovane degli Young pensavo invece che fosse relegato ai coretti e all’accompagnamento ritmico, un po’ come i poveri chitarristi delle orchestrine romagnole di liscio. 

Ovviamente mi sbagliavo. Perché quei tre artisti sono la possente centrale elettrica dalla quale diparte tutta l’energia necessaria ad alimentare quella mostruosa macchina del Rock ‘n’ Roll chiamata AC/DC.

La cifra stilistica degli AC/DC è concettualmente semplice ma tutt’altro che facile da realizzare as is: come detto, alla sezione ritmica vi sono tre infaticabili “operai” musicali, che montano di volta in volta la struttura propulsiva trainante della canzone in esecuzione ovvero il groove. Sopra l’ossatura ritmica imperversa la chitarra del piccolo studente indemoniato. Infine il cantante conduce il gioco, sbandierando la sua voce fra un riff e un solo di Angus.

Gli AC/DC sono dunque un insieme ragionato e coordinato da cui proviene un solo suono Rock, unico al mondo. Piaccia oppure no.

I cinquantatré minuti del disco contengono solo una parte del concerto all’Apollo Theatre di Glasgow e sono, secondo alcuni critici e appassionati, fra i migliori minuti mai registrati in ambito rock hard ‘n’ heavy. Del resto è difficile dar loro torto, dopo aver ascoltato la vulcanica energia dei cinque indiavolati aussies.

Nella scaletta di questo live è condensata tutta filosofia e la carriera degli AC/DC fino a quel momento, ossia la rappresentazione di una crescita musicale davvero notevole, per la band, pienamente riconosciuta solo dopo la morte di Scott e maggiormente apprezzata con l’uscita di Back in Black nel 1980. 

Ma questa è un’altra storia e la racconteremo un’altra volta (cit.).

Il Suono di questo LP Columbia, Albert Productions, Sony Music 5107631

Ascoltai per la prima volta l’album in questione nel 1985 e fu un’esperienza sufficientemente scioccante. 

Grande salone di un elegante attico al centro di Milano. Sul giradischi (un garrard 401, braccio SME 312, Denon DL-103 e SUT Audio innovation 1000) dell’atletico notaio foggiano, padrone di casa, girava una prima stampa americana. La musica ruggiva nella stanza con immensa energia, diffusa da una coppia di Klipschorn (con altoparlanti al neodimio e crossover aggiornato), amplificate da ben sei finali monofonici a triodi: Audio Innovation The First MKI, quelli con le valvole 6B4G ormai rarissime.

Avevo il cuore in gola, battito cardiaco accelerato e tempie pulsanti, tanto live, potente e tattile sembrava quel suono (e pensavo anche ai poveri coinquilini… ). 

Adesso però dimenticate quello che ho scritto delle Klipsch e dei finali a triodi e torniamo sulla terra, precisamente a casa mia. 

Avevo già una stampa (usata) italiana del ’78 ma suonava piatta e opaca. 

Con questa formidabile seconda ristampa del 2013 – masterizzata da Gorge Marino allo Sterling Sound dieci anni prima, pressata su vinile vergine da 180 grammi, alla Optimal Media Pressing Plant, in Germania – il miglioramento è nettamente udibile. 

Cosa cambia in realtà che stupisca almeno un po’? 

Innanzitutto è aumentata sensibilmente l’intelligibilità dell’evento musicale (che raccontare di trasparenza in un concerto hard rock è fuori luogo). 

Tutti gli strumenti sono meno impastati rispetto al riferimento, più definiti, separati e scontornati. Emergono nuovi dettagli. Aumenta di poco anche la dinamica.

Resta un certo grado di compressione che, in questo caso, dato il torrente di decibel erogato senza soluzione di continuità, non è sgradito, in quanto rende perfettamente percepibile (leggi: fa emergere) il lavoro di chitarra del piccolo Malcom; le linee del basso; il martellare della batteria; i guizzi vocali di Scott ed ogni minimo tocco delle corde delle Gibson SG di Angus. 

Il gran lavoro di rimasterizzazione e stampa eleva il suono di questo album di alcuni gradini: migliora la silenziosità, minore è la distorsione (non quella delle chitarre però), diminuisce la fatica d’ascolto.

La scena acustica c’è ma non è aufiofila.

Più lineare ed estesa in frequenza la banda audio. In basso, timidamente, fa capolino il punch.

Per solcare degnamente e nella maniera più emozionante questo ellepì la scelta migliore per me, fra le MM anziane del mio harem, sono state: 1) Shure V15 Type III con stilo iperellittico Jico; 2) Excel Sound ES-70S; 3) Shure M44G.

Però la palma del miglior suono, poco meno emozionante ma più coinvolgente, l’ho assegnata alla immarcescibile MC Denon DL-103, la quale ha smussato qualche scintillio di troppo, scontornando ancora meglio gli strumenti e valorizzando tutta l’energia del live, facendo emergere così lo spirito del rock.

Se volete procurarvi una stampa d’epoca di questo LP consiglierei quelle americane e inglesi del ’76 ma trovarne di decenti a prezzi congrui sarà un miracolo. 

Io però sceglierei in ogni caso la ristampa che ho presentato qui e/o le sue omologhe, sempre americane e britanniche. Le ristampe marcate UE non sono così silenzione e performanti come quelle già suggerite, benché migliori della gran parte della produzione d’epoca, comprese le successive ristampe commerciali. 

Su altro non garantisco! 

Per il resto… LONG LIVE ROCK ‘N’ ROLL!!!

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